Presentazione di Elisabetta Pozzetti

Appaiono lentamente, emergono dai fondali dell’anima e dal limaccioso sedimentare del pensiero. Relitti superstiti all’onnivora cultura consumistica si affacciano nella loro icastica forma. Un povero desco dal piatto vuoto e dalle posate in riposo attende silente che la polvere ne stratifichi la memoria. Mentre dal passato ritornano fossili pieni di vita sfuggiti alla pietra calcificante, boccheggiando per la lunga apnea. Si rianimano antiche incisioni rupestri che ricominciano la storia sospesa. Fluttuano sulla monocroma parete in incerta corsa il “toro-bisonte” ed il “toro gobbo del Mediterraneo” che appoggia pigramente le carni possenti. Sfilano in ordine serrato gli animali di un bestiario non scientificamente indagato, ma profondamente amato e rispettato. Superano l’inerzia della carta concentrandosi in sembianze d’aquaragia, in strutture significanti che divengono evocative per l’asportazione, col solvente, della patina materica. Quanto fa in effeti l’uomo, che nella incessante distruzione colpisce tutte le specie, mortificandole prima e cancellandole poi. Nelle opere di Massimo Cova la natura viene invece riarcita di tanti oltraggi e dell’ingiustificata violenza, indistintamente perpetuata. Odio ceco che si colora di rosso in “Thank you”, costellando il mondo di ferite in eterna putrefazione. Ma la risposta non tarda a venire ed è una risposta del tutto personale: impronte di mani che sigillano un rifiuto e un tentativo di ribellione all’annullamento completo. Una tensione di possesso e al trattenimento di una realtà che come sabbia si sgretola rovinando a terra. Massimo a pugni stretti la raccoglie la impasta e la stende granulosa sulla superficie del foglio trascinandola nella corposa sostanza, riqualificandola di senso, di quel senso di appartenenza che vuole che tutti ad essa ritorniamo. I ritratti si succedono incrementando ciascuno la forza gestuale fino allo sfinimento dei lineamenti. Ci ammoniscono pulvis es et in pulvere reverteris. Nel frattempo la tavola si colora di due omelette che in centrifuga d’energia occhieggiano solitarie. Mentre i piedi sul tavolo di se, e i lacerti di giornali incorniciano nuove bottiglie su tavole improbabili, dai piani ribaltati o in ardita pendenza. Un punto di fuga resiste ed affiora dal padano sentire. Una vecchia bici dall’ampio manubrio e dalle grandi ruote aspetta fiduciosa il riscatto dall’ombra. Appoggiata alla nebbia fattasi cromo marrone, scalpita nuovi orizzonti. Massimo la imbraccia anche per noi. Ricomincia il viaggio.

Elisabetta Pozzetti


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