Presentazione di Patrizio Bianchi

Questa mostra di Massimo Cova si presenta con le modeste spoglie di un manuale d’uso di utensili domestici. Mansueti strumenti d’azione vengono qui esposti nella loro freddezza assiomatica: pinzette chiuse, pinzette aperte, chiavi inglesi chiuse, chiavi inglesi aperte, forbici (da carta) chiuse, forbici (da carta) aperte. A questo catalogo corrispondono spiegazioni a latere, specificazioni pazienti che assumiamo essere illustrazioni puntuali di atti usuali e ben noti. Ma gli oggetti sono qui ombre, scheletriche memorie di oggetti ridotti ad impressioni e, come tali, svuotati d’ogni residua funzione.
Certamente da Man Ray e da Duchamp in avanti non vi è un oggetto quotidiano, da una orfana ruota di bicicletta ad un impresentabile orinatoio, che non abbia avuto il suo momento di vanità artistica, cosí come è chiaro che gran parte del Novecento si è esercitato sulle chincaglierie di casa, facendone specchio di luce, o esaltazione di forme, o esplosione di colore.
Massimo Cova svuota questi stessi oggetti facendone linee, curve, segni, che assumono vita propria: la vigorosa molletta, che nella sua realtà presunta ha funzione di addentare svolazzanti panni fissandoli ad un filo teso sul vuoto, diviene qui amuleto di una religione sconosciuta, forse un dente d’orso, un becco d’anatra da appendere al collo del suo cacciatore. Le forbici forse sono uccelli notturni dai grandi occhi inquietanti, cosí la bocca aperta o rinchiusa di quello strano vertebrato “inglese”, ed infine, che dire di quella pinza che potrebbe essere un pesce, che di colpo apre le fauci voraci, terribile quando viaggia in branchi; ma come non riconoscere nella stessa forma un evidente sesso di femmina che aprendosi ⎯per altro⎯ diviene bocca feroce.
Forme, segni, linee, che delimitano analogie e metafore che ognuno potrebbe dunque leggere all’interno del proprio catalogo delle meraviglie, se non vi fossero le puntuali didascalie poste dall’autore puntiglioso. Sennonché queste stesse spiegazioni in verità sono a noi incomprensibili e possiamo solo supporre che gli ideogrammi posti fra le due sembianze proposte con tanta accuratezza vogliano dire “chiavi inglesi”, con l’esatta metodologia di apertura della presa. Che quegli ideogrammi significhino esattamente il contenuto programmatico d’un manuale d’uso di utensili quotidiani è essa stessaillazione, attesa, solo parzialmente verificabile, attraverso mediazione di altri.
Viene il sospetto che anche le parole siano qui ridotte a segno, a linea, a metafora, che non necessariamente deve corrispondere ad un significato chiuso e predeterminato; forse quei segni sono di un Cinese anch’esso metaforico, oppure indicano solo il luogo di provenienza degli inchiostri usati dall’autore.
Con delicata ironia, Massimo Cova lascia a noi la risposta sul grado di certezza da ritenere a noi tollerabile, invitandoci a non ritenere scontati neppure attrezzi cosí ovvii. D’altronde proprio la ricerca dell’essenza delle cose permette di reinventare i significati, ricercando nella nostra vita attuale il significato delle vite immaginarie dei mille segni che si addensano sia pure nel deposito dei nostri attrezzi quotidiani.

Patrizio Bianchi


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